martedì 31 marzo 2020

Night club Malaparte


Sul finire della sua breve vita, lo scrittore si immaginò di aprire un suo locale a Forte dei Marmi, e sarebbe dovuto essere il night più chic della Versilia. Eccentrico viveur, Curzio Malaparte (scrittore toscano il cui vero nome era Kurt Suckter di padre sàssone), fu sempre visto con sospetto per le sue idee, le sue scelte anticonformiste, per i suoi scritti sempre fuori dal "coro", giornalista, scrittore e polemista di spicco internazionale, definito sarcasticamente "amatore delle vedove di Stato", viene soprattutto ricordato per il suo estetismo incompreso sia da destra che da sinistra, che trionfò nella poliedrica visuale della sua "casa" di Capri. "Una casa come me" disse. Dunque un sognatore, prima fascista arditissimo, poi per le sue intemperanze, esiliato a Lipari, a Ischia. Quando lo "approdarono" a Forte dei Marmi, forse gli tornarono alla memoria le scorribande boccaccesche ed epicuree con la signora Virginia Bourbon del Monte (un nome e un programma, figlia di Carlo Bourbon del Monte, Principe di San Faustino e Marchese di Santa Maria,   la madre invece era una Campbell...), moglie del Senatore Edoardo e madre dell'Avvocato Gianni, di Susanna e Umberto Agnelli. Fuggita dalla plumbea Torino, oppressa dalla pesante ala dei più "lupi" che Agnelli, ritrovò vita e luce grazie ad  un amore struggente per Curzio Malaparte, che le dedicò questa poesia: "Solo per te, Virginia, solo per te / aprirò il cielo notturno alla mia fronte / il sapore del mio sangue solo per te, Virginia, brucerà la bianca notte d'estate". E proprio al Forte che l'autore di Kaput e La Pelle, voleva consacrare, il trionfo della "bella vita notturna" aprendo un night. Curzio Malaparte era ancora afflitto dai postumi della tubercolosi, nei primi anni '50, quando decise di tornare nella sua casa acquistata negli anni Trenta. A Forte dei Marmi, a Villa Hildebrand, un luogo frequentato solo dalla alta borghesia, con una vita frenetica in costante movimento: “Una spiaggia in continuo sviluppo e in continuo aumento”, “Tutto si deve adeguare a questo ininterrotto progresso”, scrive. “Già gli alberghi attuali sono arretrati, non bastano più. C’è necessità di negozi di lusso. I caffè, le osterie, sono rimaste a mezzo fra il carattere primitivo di un tempo, e un falso modernismo da piccoli borghesi. Quel che impera qui, come in tutta Italia in queste faccende, è il gusto degli indigeni, della gente locale, che non ha mai visto nulla, e crede che la luce al “neon” basti a soddisfare le esigenze della clientela. Qui son bagnini o contadini rifatti, e credono che il loro gusto sia quello dei turisti. Poveri bischeri! Il fatto è che il Forte dei Marmi è, scusa il bisticcio, in regresso sul proprio progresso: è come un magnifico transatlantico con cattiva cucina, cattivo bar, e senza stanze da bagno”. Il suo dinamitardo progetto era quello, di illuminare quel luogo e renderlo un sogno per chi se lo poteva permettere, ma soprattutto meritare. Così scriveva all'amico Balbo Baldi: “La stessa Capannina è ormai sorpassata. Ed è in grave decadenza. La gente a posto, quella che spende, non ci va più. C’è rimasta la marmaglia: piccoli pratesi, e la gentarella del luogo. Ci ritrovi tutti gli operai e i bottegai fortemarmini. Questo non vuol dire essere antidemocratico: vuol dire osservare la realtà”. Le sue idee sul da farsi erano precise e lucide, anche dal punto di vista imprenditoriale: dovrà essere un Club, come lo Studio 54. “Quel che ammazza un “night club” “è la selezione errata”. Negava di essere antidemocratico, ma capiva che solo un "inaccessibile posto desiderato" poteva renderlo famoso e fruttuoso. Comperò permessi e licenze, selezionò personalmente gli alcolici da servire, si occupò dell'acquisto di pini, cipressi, oleandri, ginepri, rose pregiate, e centinaia di altre piante per rendere il parco una grande alcova dove bere e vivere amori impossibili. Il gusto architettonico di Malaparte era intransigente, ancora madido del sangue futurista che aveva traslato nella sua villa di Capri. Abborriva ovviamente il banale ed il "nazional-popolare" con gli arredi brutalisti, lo scempio della villetta che ancora oggi rappresenta l'apoteosi della cementificazione delle nostre coste, terre di conquista del popolino ciabattante. Per Malaparte:  “Nessuna colonnina romanica, nessun arco, nessuna scaletta esterna, nessuna finestra ogivale, nessuno di quegli ibridi connubi tra stile moresco, romanico, gotico e secessionista”. Per il suo Club avrebbe usato solo marmo botticino per le sale da ballo, travertino dorato di Siena al pianoterra, tavolato di quercia al primo piano (sale da gioco)”. Ad un giovane architetto milanese, Gio Ponti, avrebbe affidato gran parte degli arredi e lo studio di una illuminazione unica. Ovviamente aveva già studiato anche il menù, impensabile per l'italietta di allora: tutto freddo dal caviale al salmone affumicato, vitel tonné, foie gras.... Lo descriveva così: "Un locale come non c’è in Italia, con annessa villa principesca, dove il pubblico farà pipì in bagni di marmo prezioso. Altro che le solite schifose latrine dei locali italiani (e anche parigini, purtroppo)!” Lo avrebbe chiamato “Malaparte’s House”, o “Chez Malaparte”. Ovviamente tra alcolici, fumo e donne bellissime, non poteva mancare il gioco. “Per le sale da gioco al primo piano ci vorrà l’aria condizionata: e allora saremo gli unici. Il pubblico giocherà non più sudando fra le mosche, ma in un ambiente fresco e igienicamente perfetto..... I camerieri tutti in giacca rossa abbottonata fino al collo (chiusa), all’inglese. (Pink coat)”. Ma quanto avrebbe potuto amarlo quel posto, se anche per l'animazione ed i figuranti, aveva una idea scenografica e teatrale: “ Il mio locale sarà come un palcoscenico, la mia amica Filippina la metteremo a sedere per impressionare il pubblico con la sua pallida bellezza americana, e la sua tristezza sorridente. L’obbligheremo a parlare inglese da sola, ininterrottamente, per dar chic anglosassone al locale. E così farà Rebechita, che darà al locale l’ineffabile chic delle Ande, dei gauchos e delle praterie del Cile”. Un cinema in eterno cambiamento, ogni sera un programma diverso, ma il regista e produttore non ebbe modo di terminare la sua opera, il sogno svanì in un letto d'ospedale, a Roma in solitudine il 19 luglio 1957, aveva 59 anni e come di consuetudine si usa dire, aveva ancora una vita intera davanti a se, per continuare a realizzare sogni.

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