martedì 31 marzo 2020

Night club Malaparte


Sul finire della sua breve vita, lo scrittore si immaginò di aprire un suo locale a Forte dei Marmi, e sarebbe dovuto essere il night più chic della Versilia. Eccentrico viveur, Curzio Malaparte (scrittore toscano il cui vero nome era Kurt Suckter di padre sàssone), fu sempre visto con sospetto per le sue idee, le sue scelte anticonformiste, per i suoi scritti sempre fuori dal "coro", giornalista, scrittore e polemista di spicco internazionale, definito sarcasticamente "amatore delle vedove di Stato", viene soprattutto ricordato per il suo estetismo incompreso sia da destra che da sinistra, che trionfò nella poliedrica visuale della sua "casa" di Capri. "Una casa come me" disse. Dunque un sognatore, prima fascista arditissimo, poi per le sue intemperanze, esiliato a Lipari, a Ischia. Quando lo "approdarono" a Forte dei Marmi, forse gli tornarono alla memoria le scorribande boccaccesche ed epicuree con la signora Virginia Bourbon del Monte (un nome e un programma, figlia di Carlo Bourbon del Monte, Principe di San Faustino e Marchese di Santa Maria,   la madre invece era una Campbell...), moglie del Senatore Edoardo e madre dell'Avvocato Gianni, di Susanna e Umberto Agnelli. Fuggita dalla plumbea Torino, oppressa dalla pesante ala dei più "lupi" che Agnelli, ritrovò vita e luce grazie ad  un amore struggente per Curzio Malaparte, che le dedicò questa poesia: "Solo per te, Virginia, solo per te / aprirò il cielo notturno alla mia fronte / il sapore del mio sangue solo per te, Virginia, brucerà la bianca notte d'estate". E proprio al Forte che l'autore di Kaput e La Pelle, voleva consacrare, il trionfo della "bella vita notturna" aprendo un night. Curzio Malaparte era ancora afflitto dai postumi della tubercolosi, nei primi anni '50, quando decise di tornare nella sua casa acquistata negli anni Trenta. A Forte dei Marmi, a Villa Hildebrand, un luogo frequentato solo dalla alta borghesia, con una vita frenetica in costante movimento: “Una spiaggia in continuo sviluppo e in continuo aumento”, “Tutto si deve adeguare a questo ininterrotto progresso”, scrive. “Già gli alberghi attuali sono arretrati, non bastano più. C’è necessità di negozi di lusso. I caffè, le osterie, sono rimaste a mezzo fra il carattere primitivo di un tempo, e un falso modernismo da piccoli borghesi. Quel che impera qui, come in tutta Italia in queste faccende, è il gusto degli indigeni, della gente locale, che non ha mai visto nulla, e crede che la luce al “neon” basti a soddisfare le esigenze della clientela. Qui son bagnini o contadini rifatti, e credono che il loro gusto sia quello dei turisti. Poveri bischeri! Il fatto è che il Forte dei Marmi è, scusa il bisticcio, in regresso sul proprio progresso: è come un magnifico transatlantico con cattiva cucina, cattivo bar, e senza stanze da bagno”. Il suo dinamitardo progetto era quello, di illuminare quel luogo e renderlo un sogno per chi se lo poteva permettere, ma soprattutto meritare. Così scriveva all'amico Balbo Baldi: “La stessa Capannina è ormai sorpassata. Ed è in grave decadenza. La gente a posto, quella che spende, non ci va più. C’è rimasta la marmaglia: piccoli pratesi, e la gentarella del luogo. Ci ritrovi tutti gli operai e i bottegai fortemarmini. Questo non vuol dire essere antidemocratico: vuol dire osservare la realtà”. Le sue idee sul da farsi erano precise e lucide, anche dal punto di vista imprenditoriale: dovrà essere un Club, come lo Studio 54. “Quel che ammazza un “night club” “è la selezione errata”. Negava di essere antidemocratico, ma capiva che solo un "inaccessibile posto desiderato" poteva renderlo famoso e fruttuoso. Comperò permessi e licenze, selezionò personalmente gli alcolici da servire, si occupò dell'acquisto di pini, cipressi, oleandri, ginepri, rose pregiate, e centinaia di altre piante per rendere il parco una grande alcova dove bere e vivere amori impossibili. Il gusto architettonico di Malaparte era intransigente, ancora madido del sangue futurista che aveva traslato nella sua villa di Capri. Abborriva ovviamente il banale ed il "nazional-popolare" con gli arredi brutalisti, lo scempio della villetta che ancora oggi rappresenta l'apoteosi della cementificazione delle nostre coste, terre di conquista del popolino ciabattante. Per Malaparte:  “Nessuna colonnina romanica, nessun arco, nessuna scaletta esterna, nessuna finestra ogivale, nessuno di quegli ibridi connubi tra stile moresco, romanico, gotico e secessionista”. Per il suo Club avrebbe usato solo marmo botticino per le sale da ballo, travertino dorato di Siena al pianoterra, tavolato di quercia al primo piano (sale da gioco)”. Ad un giovane architetto milanese, Gio Ponti, avrebbe affidato gran parte degli arredi e lo studio di una illuminazione unica. Ovviamente aveva già studiato anche il menù, impensabile per l'italietta di allora: tutto freddo dal caviale al salmone affumicato, vitel tonné, foie gras.... Lo descriveva così: "Un locale come non c’è in Italia, con annessa villa principesca, dove il pubblico farà pipì in bagni di marmo prezioso. Altro che le solite schifose latrine dei locali italiani (e anche parigini, purtroppo)!” Lo avrebbe chiamato “Malaparte’s House”, o “Chez Malaparte”. Ovviamente tra alcolici, fumo e donne bellissime, non poteva mancare il gioco. “Per le sale da gioco al primo piano ci vorrà l’aria condizionata: e allora saremo gli unici. Il pubblico giocherà non più sudando fra le mosche, ma in un ambiente fresco e igienicamente perfetto..... I camerieri tutti in giacca rossa abbottonata fino al collo (chiusa), all’inglese. (Pink coat)”. Ma quanto avrebbe potuto amarlo quel posto, se anche per l'animazione ed i figuranti, aveva una idea scenografica e teatrale: “ Il mio locale sarà come un palcoscenico, la mia amica Filippina la metteremo a sedere per impressionare il pubblico con la sua pallida bellezza americana, e la sua tristezza sorridente. L’obbligheremo a parlare inglese da sola, ininterrottamente, per dar chic anglosassone al locale. E così farà Rebechita, che darà al locale l’ineffabile chic delle Ande, dei gauchos e delle praterie del Cile”. Un cinema in eterno cambiamento, ogni sera un programma diverso, ma il regista e produttore non ebbe modo di terminare la sua opera, il sogno svanì in un letto d'ospedale, a Roma in solitudine il 19 luglio 1957, aveva 59 anni e come di consuetudine si usa dire, aveva ancora una vita intera davanti a se, per continuare a realizzare sogni.

martedì 20 novembre 2018

Do sempre il peggio di mè stesso, ma essendo ambizioso voglio migliorare




Siate anche il peggio di voi stessi
ma non siate mai banali

Omogeneizzati, una volta era la parola con cui si individuavano gli alimenti dei bambini piccoli, quelli delle famiglie bene, quelli che li facevano crescere a omogeneizzati, poi con il progresso economico tutte la mamme poterono nutrite i propri marmocchi a omogenizzati e biscotti Plasmon, e poi fettine, bistecchine, carne che fa sangue, tanta carne da irrorare membra cervello e pisello.
Così hanno (?) abbiamo allevato generazioni omogenizzate, che grazie al progresso comunicazionale e alla massificazione commerciale, si omogeneizzano quotidianamente, assumono il palato globale, l'odore globale, 






venerdì 4 novembre 2016

Meglio l’Assenzio dell’Assenso, perché l’Assenzio è più Democratico!


La democrazia è la più grossa illusione da aspergere come acqua benedetta sull’umanità di creduloni, sudditi contenti di una egemonico stile di vita fatto di lavoro e consumo. Democrazia, oligarchia, dittatura non c’è differenza per l’Uomo inerme e suddito di una classe politica “catto_borbonica” il cui unico scopo è quello della difesa dei privilegi di una casta che si ingigantisce di bulimica avidità ad ogni cambio della guardia. Se le rivoluzioni avevano un unico pregio: quello di eliminare la casta precedente, la democrazia essendo democratica, le mantiene ad libitum di generazione in generazione.
La nostra democrazia è talmente democratica che ti permette tutto, ma in definitiva nel tutto c'è anche il nulla ed è di questo nulla che occorre parlare. In particolare la democrazia è nulla quando inibisce la protesta l’espressione popolare il dissenso. La democrazia è nulla quando dà la costante sensazione che il dissenso sia comunque inutile e nullo. La democrazia è nulla quando determina nella coscienza del cittadino che il suo voto o il suo “nonvoto” sia ininfluente. La democrazia è nulla quando ti da la certezza dell'inutilità del tuo libero pensiero. La democrazia è nulla quando il potere eletto democraticamente ha deciso che comunque nei secoli a venire può sempre e comunque decidere per te. La democrazia è nulla quando annulla la speranza delle giovani generazioni. La democrazia è nulla quando impedisce al sogno di poter creare un sogno e poterlo sognare liberamente. La democrazia è nulla quando annulla l'illusione nel cambiamento. È nulla quando cancella la certezza nel futuro ai giovani. È nulla quando decreta con i fatti che la cultura l’ingegno e l'istruzione non sono un bene distintivo. È nulla quando determina che una laurea serve a nulla. È nulla quando annulla la voglia di camminare per strada. La democrazia è nulla ogni volta che impone una tassa, una gabella, una alcise, perché fin dal medioevo e ancor prima, le cose migliori erano le prime ad essere tassate. La democrazia è nulla in quanto proibizionista, la democrazia è nulla in quanto censoria, la democrazia è nulla perché rappresenta la dittatura, del voto, di pochi.
Difatti la democrazia si misura solo nel consenso del “rendimento” e nell’assnza dell’assenso, sui decreti governativi, ben s’intende, di un Governo Democratico! E per questo: la democrazia serve perché istituzionalizza il dissenso sociale, ah ecco e per dirla come:
Indro Montanelli: “La democrazia è sempre, per sua natura e costituzione, il trionfo della mediocrità.”
Luigi Pirandello: “Ma la causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa; la tirannia mascherata da libertà.”
Charles Bukowsky: “La differenza tra dittatura e democrazia è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini, in dittatura non dobbiamo sprecare il nostro tempo andando a votare.”

lunedì 25 luglio 2016

Zoloft Gin e Riopan salveranno il mondo



A Nizza un giovane franco-tunisino depresso e molto altro di più, compie una strage in una forma scientemente programmata e premeditata. In Baviera un giovanissimo tedesco-iraniano, depresso, sale su di un treno munito di ascia con intenzioni tuttaltro che pacifiche, mentre un suo coetaneo, un tedesco-iraniano, certamente depresso ed emarginato da una società ricca e cattiva gioca a fare il piccolo Breivik a Monaco di Baviera e invece di bere boccali di birra e farsi coetanee e cannoni in qualche ritrovo se ne va in giro come uno “sniper”. Nel Baden Wurttenbergg un ragazzo rifugiato siriano, e pure depresso e infelice, ammazza una donna incinta con un machete; mentre in Baviera un altro giovane, anch’egli con il passaporto di “depresso rifugiato” si fa esplodere durante un concerto, così, forse perché era musica del diavolo!

Ovvio che i giornaloni della sera e pure del mattino, sguazzano in queste carneficine, accaparrandosi notizie, abbozzano bozze senza capirle ma soprattutto senza mai prendere una posizione, perché le notizie stanno sempre separate fatti, ma soprattutto dai giornali. Prime e seconde edizioni di nulla provano a seguire senza scivolare sulle piste di sangue, inseguono e non spiegano, impaginano ma non immaginano, elaborano elzevire che assomigliano sempre più a dei coccodrilli buoni solo per Montecitorio o Piazza San Pietro, celebrazioni autoconsolatorie buone sempre come il maiale di cui non si butta via nulla, buone per il rosario, per il funerale o per il giorno della resurrezione. Perché lorsignori il giornalismo è questo, che un giorno ricorda Oriana Fallaci come la madre di tutte le informazioni, ma, in quanto santa e vergine va solo idolatrata, sia mai che qualcuno tenti di imitarla e proseguire il suo cammino. Autoconsoliamoci dunque così: non è una rivolta, non è una rivoluzione, non è una invasione, è solo depressione. Una straniante rassicurazione: non dobbiamo combattere il terrorismo, ma solo una malattia mentale, dove gli antidepressivi andranno alla grande, se poi riusciranno ad ingollarsi con una buona bottiglia di gin, e per non avere degli ex depressi gastritici, allora via di malox, come se fosse riopan per i denti! Così questi ragazzi, sbarcati, vestiti, nutriti, istruiti (male), forse usciranno dal tunnel, dobbiamo aiutarli ad uscirne, perché siamo noi, il sistema, che li abbiamo disadattati, vittime del sistema che agiscono come primati davanti alla musica, ai colori, alla pelle scoperta, a quell’odore di libertà che da alla testa.

Loro sono le vere “vittime” del sistema, peccato che loro in quanto vittime continueranno vivere ed essere mantenute, ma le loro vittime reali resteranno stese per terra per sempre. Ecco dunque che l’informazione grottesca e garantista ci rassicura, non è terrorismo, non è Isis, sono solo gesti isolati, di folli. Ma la follia, che agita e partorisce il terrore, ha un unico fine: l’uso della strage, la propagazione della paura, l’induzione al rinchiudersi nella case, nelle tane, nelle cucce, perché il terrore è da sempre il motore sinistro della storia e delle sue mutazioni.

La nostra società da mezzo secolo, dipende dalla informazione, ci muoviamo, viaggiamo o restiamo sempre in funzione di quella, le popolazioni crescono o calano, comperano o vendono, ridono o piangono, procreano o anche no, sempre e solamente in funzione della notizia. Le banche si salvano o falliscono, si compera oro o mattoni a seconda di come apre la borsa, nella vecchia Europa, che apre dopo Shangai e chiude un po’ prima di NY. Tutto incredibilmente si muove come in un teatrino mosso da televisioni, giornali e rete, dove si esprimono tutti: pensosi e penosi opinionisti, sociologi onanisti, psicologi turbati, scienziati consenzienti, criminologi impazienti, teologi atei, tribuni del popolo ma anche della popolarità, semiologi della domenica, ma anche del resto della settimana, astrologi sinceri e cartomanti indulgenti, venditori di pentole, ma anche di redenzioni. Tutti oggi hanno acquisito il diritto di parlare, che non vuol dire esprime una opinione, ma dare una opinione che diventa per tutti una certezza, ecco allora che ogni imbecille può declamare poesie, filosofeggiare sulla vita, indurre giurie a giudicare, liberalizzare o condannare, muovere scuole di pensiero che oggi più che mai, in una oziosa assenza di virilità, determinano tempeste ormonali e orgasmiche in tutte le signore “marie” ovviamente casalinghe di Voghera, un nome una condanna, per l’eternità. Cosa resterà di quegli anni “che l’ha detto il telegiornale”, nulla e tutto, ma una cosa è certa, come dice Woody Allen, l’unica verità sta nelle notizie meteo, forse. Così il problema oggi, non è il terrorista, lo stragista, l’anarchico, il fondamentalista, l’etremista, ma il depresso e la sua fanatica riproducibilità virale e seriale. Quindi il problema della nostra società non è la violenza, l’assassinio di massa, la cultura dell’odio, la religione del coltello che lacera e dissangua, il disprezzo verso le donne, la cultura dell’odio, l’esaltazione della morte come redenzione, la volontà di incutere terrore, l’inoculazione dell’idea dell’idea di sterminio, di pulizia etnica, non il terrorismo come forma camaleontica di un nichilismo non solo individuale, ma sempre più collettivo, no, dobbiamo avere paura dei folli. Dunque tutta colpa di Basaglia? Quando pensiamo di aver toccato il fondo, pecchiamo sempre di presunzione, e per capire lo sprofondo dovremmo rileggerci “Le veglie di Bonaventura”, opera del romanticismo tedesco, dove il protagonista vive di notte e veglia sull’ordine della città, un mondo di pazzi, dove il nichilismo purifica ogni cosa. Noi no, noi siamo occidentali, garantisti, assistenziali, alcuni cristiani, altri no, ma che importata d'altronde oggi tolleriamo perfino gli ebrei e i gay… Però a guardarli bene negli occhi questi occidentali, hanno un grande handicap che si contrappone suddito all’invincibile atout dell’orientale: noi abbiamo paura a vivere, loro non hanno paura di morire.

Scriveva negli anni ’70 De Andre: “Per strada tante facce / non hanno un bel colore / qui chi non terrorizza / si ammala di terrore / c’è chi aspetta la pioggia / per non piangere da solo / io son di un'altra razza / son bombarolo”

Se analizziamo il cambiamento stragista dell’ultimo secolo ci rendiamo conto di una cosa che ha modificato radicalmente l’atto: il terrorista ancien régime metteva la bomba, al massimo la lanciava, ma fondamentalmente non si martirizzava, anzi spesso e “molto” volentieri, restava vigliaccamente anonimo, in quanto si salvava e osservava godeva di nascosto della visione della sua opera. Il criminale di oggi invece è un esibizionista, deve essere al centro della strage, a volte si bea di essere osservato mentre la compie e come primo attore, autore, sceneggiatore e regista, lì resterà al centro della scena. L’atto criminale di far saltare un aereo, lo si potrebbe compiere con un razzo terra aria, non occorre rischiare di essere colto ai controlli doganali, salire sull’aereo, rischiare di essere presi dal panico, eppure solo così si è artefici, vittime sacrificali e dei fra gli dei. Quindi sull’aeroplano, dentro alla metro, su di un treno, in un locale pubblico, loro ci saranno, fino a qualche istante prima anonimi instabili e depressi, ma un attimo dopo, agnelli sacrificati per il nulla. Siamo davvero come sempre ad un passo dal nulla, perché la storia non perdona e si riprende sempre quello che gli uomini hanno pensato di poter cambiare, dalla crocifissione, a Giulio Cesare, alla revolverata di Sarajevo, ai bambini perduti sulla Croisette di Nizza.
Ci sono dei confini, anche se il libertarismo che abbiamo faticosamente conquistato ci illude che non esistano confini, i confini ci sono. Viviamo nell’illusione di poter fare tutto ciò che desideriamo, anche sapendo che è sbagliato (e questo impunemente e delittuosamente è anche quello che abbiamo trasmesso ai giovani), possiamo fumare, bere, mangiare a crepapelle, ubriacarci e vomitare, ingrassare e dimagrire, fare sesso sempre e (quasi) ovunque, sposarci e separarci, fare figli e abbandonarli, mietere dissenso, sporcare le città, denigrare la patria, rubare, non pagare le tasse, bestemmiare e sputare (non ci sono più i cartelli nei luoghi pubblici che lo vietavano). E nonostante io ricordi sempre le parole di Cipputi: “spero che ci sia sempre qualcuno pronto a dare la vita per difendere il mio diritto a dire tutte le cazzate che penso” concludo affermando che i confini esistono, e sono un baluardo del tempio o del castello o della propria casa o della propria libertà che va difeso. Con ogni mezzo. I confini vanno difesi, controllati e presidiati, perché non si difende oggi un territorio, o una miniera, si difende una civiltà fatta di millenni di storia, di arte, di cultura, di progresso, di leggi e di giustizia liberale, di libertà dei cittadini, delle donne e dei loro diritti, dei minorenni, della libertà di istruzione, di pensiero e religione. Se c’è un problema umanitario di assistenza a questo occorre rispondere con atti e parole di civiltà, ricordando sempre che l’eccesso di tolleranza con gli intolleranti, provoca la scomparsa dei tolleranti e della tolleranza, così scrisse il grande filosofo Karl Popper, e che lo si sappia, e che tutti lo sappiano: le teocrazie islamiste sono incompatibili con la cultura occidentale, che capitalismo e stato liberale, sono da migliorare e non da abbattere, che la propaganda dello sterminio e dell’odio diffusa anche sui social, è un’arma di distruzione di massa e va fermata.
La vita virtuale, è una malattia, produce solo alienazione e al peggio assassinio di quella reale.



martedì 18 agosto 2015

Sangue e Arena

Freidor ti ha incornato
Freidor è morto e tu quasi
liberamente tratto da ilFoglio


Tu caro amico mio sei intabarrato nel traje de luces, quel tuo abito azzurro ricamato di fili d’oro prezioso, come si confà ad un torero del tuo rango.

Il fido mozos de espadas ti ha amorevolmente aiutato a indossare la chaquetilla che avvolge il tuo petto, e la taleguilla che esalta la forma delle tue gambe.
Hai chiesto alla Vergine della Macarena di Siviglia, di esserti accanto, le hai affidato il tuo destino, come sempre. 
Manca poco, la banda inizia solennemente a suonare un paso doble.
L'amore. La vita. La morte.
Ti guardi allo specchio, i tuoi occhi brillano come una lama di Toledo, 
sei una maschera guerriera iberica,
muscoli e sangue andaluso,
zigomi e mascella come le rocce dei Pirenei,
capelli d'aquila corvina,
sei una freccia scoccata nell'aria,
tu fai innamorare le fanciulle.
E' giunta l'ora
la Plaza de toros di Huesca è tutta per te.
Sei un figlio della leggenda
Sei un torero, sei un matador,
sei Francisco Rivera Ordonez
tu sei "Paquirri".
E' giunta l'ora, sangue e arena.
Ti levi il cappello, la montera nera, saluti il pubblico
Gli applausi ti innondano come petali di rosa sui tuoi passi.
E' bella la plaza de toros de Huesca,
fu innaugurata nel '29
e ora come un colpo di spada la memoria va a tuo nonno
Antonio Ordonez
sta matando in compagnia di Luis Miguel Dominguin,
mentre un americano con la barba scrive sul suo Moleskine,
scrive, fuma, ride e tracanna bottiglie di rosso Rioja,
si chiama Ernest.
Il lampo dei ricordi è passato
 è giunta l'ora,
ti levi anche il capote de paseo.
D'ora in avanti, l'arena è solo per
Paquirri e Freidor.
Il toro pesa 455 chili di muscoli e furore,
è un buon toro da corrida, e tu pensi:
"gli donerò l'onore che merita, la morte".
Il mondo diventa vermiglio mentre volteggi la tua capa
si innalza la musica al cielo
a scandire i tuoi rituali movimenti,
le mosse, le incornate a vuoto, le giravolte, i passi avanti e indietro.
Sangue e Arena
Ma ancora un colpo di spada ti acceca nel ricordo
Una luce fulminante sull'arena di Pozoblanco,
anche là c'erano un toro e un torero
erano tuo padre Francisco Rivera Ordonez e Avispado.
Era il 26 settembre 1984, anche allora giunse il momento del "tercio de varas"
Francisco Rivera rotea la capote, la pesante e larga cappa gialla e rosa.
E' il momento più poetico e ricco di figure, e
"Paquirri" è la leggenda dell'Arena, è
il Francisco Goya del capeando.
Conosce tutte le figure: la Chiquelina, la Mariposa e
mentre la folla in delirio applaude
così improvvisamente dal nulla
Avispado lo carica.
Si consuma tutto in un giro fatale di polso.
Un attimo e le corna lo penetrano, lo sollevano, lo roteano in aria, il suo corpo è in balìa di una forza mitologica, sovrumana, quintali di rabbia, muscoli, potenza e morte.
Paquirri lascia così per sempre l'arena e con gli occhi sempre più lontani e liquidi immagina la sua bellissima bellissima
Isabel Pantoja
cantargli per l'ultima volta
la "Pasion y Deseo"
mentre il tuo volto gli appare
come un bagliore
sulla carretera che lo conduce a Cordoba
dove non arriverà vivo.
Tutta la Spagna piange "Paquirri" e tu
improvvisamente scopri chi sei e quale è, e, sarà il tuo destino
e davanti a te c'è il crudo e unico significato di
"Morte nel pomeriggio", la verità del tuo sangue,
sarai anche tu un torero.
Come tuo padre, come tuo nonno, come tuo zio.
Toros. Olè!


Ventisette anni dopo, per quel bambino è di nuovo la stessa ora
senza ombra nell'alba come nel tramonto,
la "Morte nel pomeriggio" arriva sempre 
a la cinco de la tarde
ora davanti a te c'è un toro di nome Freidor.
Tu pensi che per lui non sia ancora giunta la sua ora,
lui pensa che per te forse la tua ora è giunta.
Lasci trascorre il tempo pensi che non sia ancora 
l'ora
di penetrarlo con la spada, tra le scapole, e dargli la sua morte fulminante.
No, matare è un'arte e nell'arena di Huesca riconoscono il tuo talento
come il falco che sfrutta le correnti ascensionali del vento.
La plaza de toros è un luogo che ribolle di pathos ma dove in realtà
la freddezza è l'essenza del tutto.
Perché nell'arena non si bara.
Hemingway lo scrive sulle pagine di "Morte nel pomeriggio"

Tutti i segni esteriori di supposto pericolo dati da un toro, come lo scalpitare, il minacciare con le corna o muggire, sono un bluff.
Il toro veramente coraggioso non dà avviso prima di caricare, eccetto il fissare negli occhi il nemico, tende i muscoli del collo, contrae un orecchio e alza la coda nell'attimo della carica.
Un toro veramente coraggioso non apre mai la bocca, non fa nemmeno uscire la lingua durante il combattimento, e alla fine, con la spada in corpo, fissa il torero finchè gli reggono le zampe, con la bocca serrata, per non far uscire il sangue.

Ora Francisco tu sei Paquirri
e hai davanti a te Freidor.
Non si agita. Ti fissa negli occhi.
E' davvero un toro coraggioso, forse troppo.
Freidor è imprevedibile, non come quelli sembrano correre su rotaie, avanti e indietro, lui è un vero toro da combattimento.
Pozoblanco Hueva. Andata e ritorno.
Come 26 anni fa, come tuo padre,
mostri la cappa al toro
lo chiami alla carica
muovi leggermente il drappo porpora e giallo
ti sposti sulle gambe piano
senza mai staccare i piedi da terra
senza mai staccare glio occhi dal toro.
Ora.
Ora Freidor sta arrivando, non dritto, no
arriva di sbieco, di rincorsa poi all'improvviso
curva alla tua destra ignorando la cappa,
è un istante
e tu Paquirri gli mostri il fianco scoperto.
Ora l'arena intuisce esattamente quello che sta per accadere
le corna di Freidor stanno recidendo le tue arterie
non avverti ancora dolore, l'adrenalina te lo placa, ma ti senti sollevare
impotente ad ogni gesto
una sensazione che sospettavi ma non conoscevi
tutto in te si sta lacerando: muscoli, ossa, organi vitali.
Il tuo corpo ora è un tronco d'albero trascinato dalla bufera,
una furia primitiva e arcaica sta bussando morte alla porta della tua vita.
Freidor ti trascina sotto di se per poi innalzarti di nuovo al cielo.
Ti calpesta, ti incorna, ti squarta, 
e tu sai che quel turbine di muscoli vuole finirti.
Il tuo cuore impazzito pompa sangue a mille, 
e il tuo sangue esce a fiotti da ogni dove,
il tuo cervello sempre più annebbiato cerca di dare comandi ordini e istruzioni
che non possono più arrivare alle periferie del tuo corpo 
così insultato.
Freidor ti ha ingannato, preceduto, colpito e infilzato
e ora vuole farti a pezzi.

"solo il toro ha il cuore alto
alle cinque della sera"

Che dannato pomeriggio è mai questo del 
10 d'agosto!
Huesca è un santuario di silenzio
e tu Paquirri esci di scena
sanguinante come tuo padre,
questa è la tua storia e quella della tua famiglia,
ma la corrida continua ed El Fandi che da Siviglia a Malaga
ha toreato in maniera straordinaria, 
qui su questa arena insanguinata
ha ucciso Freidor.

E per te amato Paquirri
dedico questi versi:

"Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.
Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.
L'insigne maturità della tua conoscenza.
Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.
La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.
Tarderà molto a nascere, se nasce,
un andaluso così chiaro
così ricco d'avventura.
Io canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste negli ulivi"

Freidor è stato un buon toro e
Sarà sempre Fiesta


martedì 23 giugno 2015

Un Wall per scrivere, imbecillità



Spesso sento ripetere retoricamente 
"ma come facevamo quando non c'era il cellulare, non vivevamo bene lo stesso?"
Vero verissimo, anche senza il condizionatore in auto, il riscaldamento centralizzato, il bagno in casa...
Come sempre il problema non è l'esistenza della materia: pietra scheggiata, polvere da sparo o uranio impoverito, ma l'uso improprio che se ne fa.
A me piace la televisione, anche se non la guardo, come mi piace un ottimo cubano, anche se non lo fumo, corteggiare una bella donna anche se non l'avrò mai, avere in casa l'intera enciclopedia Treccani, non la leggerò mai, ma il solo possesso mi eccita.
Poco mi interessa la mia vita, meno ancora quella degli altri, non amo le domande, ritengo superflue le risposte. Ero in rianimazione e il cardiologo mi chiedeva come stavo, gli risposi: "Se non lo sa lei!" Non venne più a visitarmi. Qualcuno dice che non sono un comunicatore, non è vero, anzi la comunicazione, quella vera, si basa sui concetti essenziali di immediatezza, rapidità, esaustività, necrosi. Qualunque notizia, cessa di vivere nel momento stesso che viene lanciata, perde di attualità (immediatamente appartiene al passato), perde di veridicità (immediatamente viene confutata e contestata),  perde di interesse (who, when, where, what? Boh!). Scriveva il Sig. G.
"Il Giudizio Universale non passa per le case e gli Angeli non danno appuntamenti, bisogna ritornare nella strada, nella strada per conoscere chi siamo!"
Ecco appunto, era il 1974, anno di luce, di idee, di sogni e di illusioni, anni di cattivi maestri e di ingenui allievi, anni di amori semplici, di rapporti felici, di gioie sessuali, di mordi e fuggi perché tanto "Vogliamo tutto e subito", ma già in quegli anni la paura di chiudersi nelle case, era forte. L'autocelebrazione del proprio pensiero era la maggiore minaccia verso la socializzazione, il confronto, l'apertura alle idee.
Oggi internet è uno strumento fondamentale per creare false identità, amicizie inesistenti, coiti virtuali, convivenze virtuali, perché la vita virtuale è certamente la più facile e duratura, rasenta l'eternità e se qualcuno non scrive: "scusate non taggatemi più, non postate più sul mio profilo perché sono morto", amicizie e amori possono durare secoli, millenni.  Internet nel guinness della conoscenza superficiale ha superato quello delle religioni, dove tutto viene assunto attraverso ogni tipo di orifizio, memorizzato, digerito ma non espulso, perché ogni cosa imparata per "sentito dire" diventa sacra ed inossidabile nel tempo. Internet è la realizzazione di un sogno: la diffusione globale della notizia, compresa soprattutto quella commerciale trasversale, di comunicazione immediata e di immediata scomparsa, è la democrazia dell'ignoranza e del facile apprendimento, del poter dire "lo so",  l'ho verificato lì, un mondo di wikilaureati!  
Su facebook leggo di uno che si lamenta dell’inefficienza dei servizi pubblici in Italia, l’ennesima foto sul malcostume e sul degrado, l'immancabile selfie della milf scosciata in cerca di senili brividi, il post con cui un mio amico annuncia il suo divorzio, l'anniversario della morte o scomparsa di un genitore di uno che non so chi cazzo sia, un cartolinesco tramonto ad Abu Dhabi, un Martini sulla terrazza del Mandarin. Con facebook ognuno può fare invidia ai suoi amici mostrando ciò che fa, ma soprattutto ciò che non fa, ciò che vorrebbe fare, che vorrebbe essere e che non sarà mai.

Umberto Eco riguardo a internet, ha detto:
“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.

E' certo che su facebook, e non solo, vengano pubblicati post altamente banali e inutili quando va bene, o peggio  di stampo xenofobo, che inneggiano alla guerra o allo stupro, trasformando il mezzo dalla lavagna per idioti al meretricio del tatzebao, e se qualcuno pensa che questo sia il mezzo più democratico che ci sia che permette a tutti (idioti compresi) di esprimere il proprio pensiero, spesso malato, si sbaglia. Non che con questo si voglia spezzare una lancia verso la stampa libera che libera non è, colta che colta non è, gli stessi giornalisti sono spesso vittime di se stessi o degli editori che mantengono loro e i loro figli (peraltro sempre peggio), ma certo è che anche solo la momentanea esistenza (di qualche ora al massimo) di un foglio di giornale, riportante una firma in calce, fa assumere all'autore una patente di responsabilità, anche se vissuta all'interno di una unità sanitaria protetta, ma pur sempre una paternità.
Eco prosegue:
La tv aveva promosso lo scemo del villaggio, rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Internet ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità“.
Ca va sans dire, è vero i tempi cambiano, la comunicazione si evolve, i muri crollano soprattutto quelli sui quali era giusto, giustissimo scriverci sopra, oggi quei muri sono crollati. Altri muri sono stati eretti e subito eletti a grandi schermi sui quali ognuno possa scrivere quello che vuole, soprattutto le sue imbecillità private, purtroppo.

lunedì 25 agosto 2014

Ma la soia chi la munge?


Siamo nati in una terra di mezzo, là dove qualcuno usciva da un lungo periodo di sofferenza di fame e di guerra e qualcun’altro entrava in un periodo di illusione e finto benessere. 
Lì siamo nati in quella terra di finta libertà, di melensa democrazia, di falso moralismo, di inutile competività. Ci dicevano che la vita si sarebbe allungata a dismisura, ma non ci dicevano che si sarebbe allungata soprattutto la fatica e il malessere di viverla. Saremmo andati sulla luna e ancora oggi non si capisce a cosa sia servito. Avremmo sviluppato l’energia nucleare, ma ancora oggi, a parte l’uso bellico, non sappiamo a cosa serva. La medicina avrebbe fatto grandi progressi, dicevano, ma ancora oggi si muore di lebbra, di tubercolosi, di malaria, di ebola, di hiv, perché non è il morbo che va sconfitto ma lo stile di vita e la cultura del viverla.

I bambini di allora in pantaloni corti fino all’età dell’adolescenza volevano fare gli astronauti, i piloti, gli scienziati e non immaginavano che i loro figli avrebbero voluto fare i calciatori, le veline o tutto al più il semplice impiegato alle Poste.
Lo diceva la televisione, e se una cosa la diceva la televisione, potevamo stare certi che non poteva essere contraddetta.
I lavori manuali sarebbero scomparsi, le macchine avrebbero preso il posto della classe operaia che sarebbe così potuta andare tranquillamente in paradiso, avremmo avuto tanto, ma tanto tempo libero. Nessuno però ti diceva che cosa ne avremmo fatto di tutto questo tempo libero. Il tempo libero ieri come oggi determina ansie e depressioni, nel tempo libero occorre pensare che cosa fare, del e nel, tempo libero.

La nostra infanzia era costruita, quotidianamente scadenzata, dalla alimentazione, la  bistecca era fondamentale, senza fettina dalle Alpi al mediterraneo non si poteva sopravvivere, perché: magro era sinonimo di povero malnutrito e ignorante.
Oggi grasso è sinonimo di povero malnutrito e ignorante.
Allora sapevamo che in prossimo futuro illuminato ci saremmo nutriti con gli alimenti in pillole degli astronauti, ma allora dovevamo accontentarci della bistecchina, del formaggino triangolare solido o di quello rotondo e molliccio, la carta stagnola la accantonavamo per i ciechi, non ho mai capito cosa se ne facessero, erano ciechi!
La brioche era “incellofanata”, il succhino in bottiglia, la gelatina implasticata, la carne inscatolata, la marmellata colorata, la cioccolata spalmabile, l’ovomaltina in polvere, il caffe solubile, l’aranciata frizzante e il pollo la domenica, una lussuria.
Era il progresso che avanzava e la civiltà dell’industria alimentare significava progresso: così il brodo si iniziò a farlo con il dado,  arrivarono biscotti, crackers, salatini, salamini e merendine, caramelle e gomme da masticare.
Nel nuovo mondo tutto immaginario, il cibo non proveniva dalla campagna, il contadino non esisteva e i suoi figli sognavano la città, dove il pane non era massiccio e insipido, cotto settimanalmente nel forno a legno, ma morbido e quotidiano.
Ci ingozzavano o ci ingozzavamo di tutto pur di raggiungere i punti per avere la mucca Carolina. Gli Italiani mangiavano per essere quello che non erano o diventarlo loro malgrado.  I quotidiani allora come oggi, servivano per incartare il pesce o ritagliati al cesso, ma poi la carta igenica li ha nobilitati, ma non salvati.
Tutto nella terra di mezzo ci sembrava raggiungibile fattibile, sognabile realizzabile: un diploma per tutti, una laurea per tutti, un’automobile per tutti, una casa per tutti. 
In seguito abbiamo pensato fosse immorale mangiare la bistecchina, iniziato a provare allergie fastidiose per il latte, a incolpare uova e formaggi di procurato danno da colesterolo.
La soia sarebbe così diventata la nostra salvezza, ristoranti vegani dagli improponibili nomi tipo Camomilla o Clorofilla iniziarono a popolare i quartieri, ghigliottinando beccari e tripparoli dell'ancien regime
Ora qualcuno li avverta che la Soia non è un animale da proteggere solo perché produce latte e bistecche.


Poi improvvisamente dopo aver lottato per conquistarci il nostro carrello quotidiano al supermercato, improvvisamente con una trasformazione schizzofrenica siamo tornati a cercare il contadino, in quel podere che non c’è più, in quella stalla dal tetto crollato, in quell’aia deserta, ma con un po’ di fortuna, all’uscita del casello autostradale possiamo incontrare un agriturismo e lì in un nuovo sogno di vita, con desideri nuovi, ma esigenze di sempre, potremo appagare la nostra volontà di ritorno alla natura, tornando là da dove eravamo partiti e fuggiti: le uova fresche di giornata, il pane integrale, il latte bio, il formaggio grasso ma che non ingrassa, la gallina ruspante, il brodo di cappone, il vino sincero e l’aria pulita. 
Abbandonando per qualche ora l’auto e ricomperandoci la bicicletta potremo anche, forse, perdere quei chili acquistati a caro prezzo, potremo anche, forse, depurarci il corpo, 
ma non certo salvarci l’anima. 
Quella ce la siamo venduta da tempo.